L’opera prima di Piergiorgio Bortolotti
In quei “remenghi” ci ritroviamo
All’origine di questa sperimentazione letteraria c’è la stessa sensibilità e l’esperienza di relazioni umane significative vissuta dall’Autore all’interno del Punto d’incontro.
Inseparabile braccio destro di don dante Clauser fin dai primi passi fra i barboni “storici” del Punto d’incontro di Trento, Piergiorgio Bortolotti è forse uno dei più noti anche se silenziosi operatori sociali del Trentino, stimato per l’attenzione a cogliere e segnalare quanto si muove sulle frontiere del disagio sociale e per la capacità di darvi risposte sollecite.
Può destare quindi sorpresa-di primo acchito- che il barbuto Piergiorgio abbia trovato tempo e ispirazione abbondante per prendere “carta penna e calamaio” e mettere nero su bianco il suo primo romanzo affidato ai promettenti tipi della nuova casa Edizioni31 di Trento. Ma fin dal titolo “Remenghi” e dalla dedica “A tutti i perdenti della vita” s’intuisce che all’origine di questa sperimentazione letteraria (peraltro anticipata da alcuni godibili racconti sul giornale interno del “Punto”) c’è la stessa sensibilità e l’esperienza di relazioni umane significative vissuta da Bortolotti. In un contesto sociale facilmente riconducibile ad un altopiano trentino nel secondo dopoguerra (Bortolotti è un “pinastro” doc), l’autore inserisce come figurine dai contorni ben definiti una lunga serie di ritratti umani che egli ha ritagliato nelle sue memorie giovanili e che affondano nelle sue radici contadine. Uomini semplici, con i loro tic e i loro vizi (il bicchiere di vino in primo luogo) che diventano però anche macchiette in cui è facile riconoscere tanti tipi umani. “Nomi e volti ordinari – come scrive Mauro Ferrari – eppure straordinari, restituiti in una sceneggiatura ironica che prende in prestito le loro parole. Ecco il Pero Pavon o il Giovanni schirat o il Martino Scrpion, nei volti dei quali Bortolotti sembra trasferire un’esperienza vissuta, quasi un’empatia. Non c’è prese di distanza, semmai vicinanza umana, anche se Bortolotti non cede mai alla facile retorica dei valori antichi della tradizione trentina, semmai sa porre l’indice su alcuni disvalori legati a certi stereotipi sociali. È un affresco popolare, colorato da sequenze vivaci come le processioni, l’uccisione del maiale o del gallo, con qualche tinta verghiana, anche se più che gli ambienti l’attenzione è al linguaggio e a quei detti popolari in cui si sedimenta la saggezza contadina. Per non dire dell’eccessiva quasi sfilza di soprannomi, che accompagnano pesantemente ogni personaggio e che vanno però a sottolineare come avveniva in ogni paese un tratto tipico del temperamento, o il genius loci. Questo lessico famigliare condiviso, talvolta giustapposto a espressioni italiane quasi stridenti con il dialetto trentino-è forse il tratto ancora più originale di questo lavoro inedito anche per i tanti cultori del dialetto. Che al percorso logico di una storia, volutamente inesistente (a parte la forzata appendice di carattere giudiziario) sia preferito da Bortolotti l’insistere sulle piccole storie, è pure una precisa scelta di campo, sorprendente. Ma in quei remenghi di ieri e di oggi ci troviamo tutti; per questo si tratta di un’opera prima coraggiosa, che meritava di non rimanere in un cassetto del Punto d’incontro.
Diego Andreatta