Uno strano barbone
Un delicato racconto di Piergiorgio Bortolotti
Il Barba: una vita stravagante da barbone. Un vagabondo che oscilla fra una povertà francescana e un malinconico perdersi in un bicchiere di troppo.
Ma quale filo lega il Barba, protagonista quarantenne della seconda parte del acconto, con l’infanzia e l’adolescenza di Giuseppe Libero di cui si parla nella prima parte? Con il nuovo libro “Il Barba” (Todariana ed., Milano 2007, pp. 96, euro 10,00) Piergiorgio Bortolotti conduce il lettore con mano affettuosa e leggera su un’asse del tempo che pare spezzarsi in due tronconi di vissuto, in apparenza senza legami fra loro. Ed in mezzo cosa ci sta? Rimane il vuoto che il lettore può riempire a modo suo, rispettando però i chiari indizi sparsi qua e là. Nella prima parte si assiste alla crescita di Giuseppe Libero, in uno sperduto paesino di montagna. Orfano del padre morto in guerra, abbandonato dalla mamma che si reca in Svizzera per lavoro, è circondato dalle cure dei nonni. Fattosi grandicello impara a badare a se stesso e a fare tanti lavoretti. Ad un certo momento è convinto di voler fare il missionario. Riesce bene negli studi, gli piace la vita di collegio, si incontra e talora si scontra con i sacerdoti che hanno a cuore l’educazione dei giovani seminaristi. Ma, crescendo, avverte in sé anche l’effervescenza adolescenziale delle emozioni e delle curiosità per il mondo femminile. Vive la sua prima e seria “cotta” per la ragazzina di terza media, Irene. E’ un innamoramento coltivato con la timidezza, il romanticismo e il rispetto che negli anni Sessanta costituivano l’inventario dei sentimenti per diventare uomini senza bruciare le tappe. Ma ne è coinvolto in profondità e si convince di non essere fatto per il sacerdozio. Lascia il seminario, torna al paesino dei nonni e poi si diploma elettrotecnico. Infine tronca con i sogni e decide di andare in Svizzera a cercare un lavoro remunerativo insieme ad un amico. La seconda parte del racconto parla di un vagabondo, che in città tutti chiamano “il Barba” perché si conosce ben poco di lui. Vive in una baracca di legno e lamiera sotto un’arcata del ponte del Rio Torvo, con un cane, un gatto, un Vangelo e una biografia di San Francesco. Ha una sua dignità, tanto che non chiede mai l’elemosina, ma si accontenta del poco che riceve per dei lavoretti occasionali. E’ devoto della “Madonna del viandante” che si trova nella chiesa di San Giorgio. Ed è proprio qui che incontra il parroco don Carlo, una figura centrale di questa parte del racconto. Sarà lui alla fine, nel corso d’una commossa omelia funebre, a svelare la vera identità del Barba, di cui è appena venuto a conoscenza. Don Carlo è un prete che, sulla spinta dei nuovi fermenti conciliari, decide di lasciare la parrocchia per dedicarsi totalmente ai poveri, ai barboni e ai drogati, segnati a dito dai benpensanti. Si affeziona al Barba e alle sue provocazioni, ne rispetta il segreto che non vuole svelare, annota con stupore certi suoi imprevedibili gesti di altruismo. Come altri collaboratori, gli vuole bene anche Tiziana, una donna dedita al mestiere più antico del mondo ed aiutata a tirarsene fuori da don Carlo. Lei confida però al Barba che talora lo fa ancora, non per un suo bisogno, ma per confortare certi poveracci che vede troppo soli. Tra le righe di una narrazione che vorrebbe essere impersonale, si possono leggere dei riferimenti all’esperienza che Piergiorgio Bortolotti sta portando avanti al “Punto di incontro, Casa di accoglienza per i senza dimora”. Come nei tratti, nei comportamenti e nel percorso ecclesiale di don Carlo si può intravedere la figura dello stesso don Dante Clauser.
Elena Fontana