Troppo comodo e fuorviante parlare di “mele marce”, quasi si trattasse di un episodio estemporaneo, addebitabile all’esplosione di rabbia di pochi individui quanto successo nel carcere di Santa Maria Capua Vetere.
Fingere indignazione supponendo che le carceri italiane siano ordinariamente luoghi nei quali la vita scorra, sia pure dentro binari difficili, all’insegna del quieto vivere, in un clima di rispetto reciproco tra detenuti e personale penitenziario, significa non conoscere per niente cosa sia davvero la realtà carceraria. Una realtà dura, faticosa, difficile nella quale se la violenza fisica non necessariamente ha sempre i connotati di quella che ci è stato dato modo di vedere dalle immagini riguardanti la “mattanza” accaduta nel carcere campano, tuttavia è quotidianamente presente in molti modi; magari più sottili, ma non per questo meno censurabili. Fatte salve le pur presenti eccezioni, resta il fatto che il carcere, al di là dei proclami, delle circolari, delle norme scritte che definiscono modalità di detenzione, diritti e limiti delle persone recluse, è e rimane una di quelle strutture totalizzanti troppo spesso impermeabili, all’interno delle quali la vita è scandita da un non detto e da regole non scritte che contribuiscono a renderlo invivibile e poco e per nulla atto ad essere luogo di risocializzazione e di rieducazione del condannato. La contrapposizione tra detenuti e personale carcerario spesso è dovuta proprio alla disfunzione strutturale tipica di una realtà totalizzante, contro la quale il singolo, per quanto mosso dalle migliori intenzioni, può ben poco o quasi nulla. Chi ci vive dentro è quasi inevitabilmente costretto a sentirsi parte dell’uno o dell’altro schieramento, in una sorta di solidarietà di classe, pena essere messo ai margini o essere visto come un corpo estraneo; un traditore. Ecco che allora, se e quando accadono episodi di violenza, da una parte o dall’altra, anche se qualcuno volesse trarsene fuori, gli è quasi impossibile. Al massimo gli riuscirà di non farsi troppo coinvolgere. Ciò che manca davvero, sempre fatte salve le dovute e talvolta perfino meritorie eccezioni, è una organizzazione, e prima ancora una idea di carcere che sia realmente conforme allo spirito e alla lettera della nostra Costituzione. Non è così. In fondo il carcere risponde alla domanda di vendetta verso il reo che parte dalla società. La reclusione non è solo impedimento per il condannato di reiterare il reato, ma punizione che si attua attraverso tutta una serie di provvedimenti e di modalità di esecuzione della pena che spesso servono a esacerbare gli animi rendendo, nei fatti, la convivenza e il rapporto tra chi è condannato e chi ha il compito di custodire a nome dello Stato il reo, all’insegna costante del conflitto e della disistima. Un giorno mentre mi recavo all’interno del carcere nel quale svolgo attività di volontariato, mi è capitato di percorrere un tratto di corridoio in compagnia di un agente di custodia che non conoscevo e non avevo mai visto prima. Mi chiese cosa facessi lì dentro e spiegai brevemente cosa ci andavo a fare. Mi rispose, ed era sincero, ne sono certo, in questi termini. Noi agenti di custodia, in Italia siamo più o meno cinquantamila. Per svolgere l’attività che ci è demandata, a mio parere ne basterebbero quindicimila. Servirebbero invece molti assistenti sociali, psicologi, educatori e volontari perché sono queste figure di cui il carcere ha estremo bisogno, non tanto di nuovi agenti. Credo avesse colto nel segno e poi, detto da uno che svolge quel tipo di compito, ritengo abbia un rilievo maggiore. Tuttavia continuo a sentire parlare di carenza di organico, inteso come agenti di custodia, quasi fosse la panacea di ogni male. Forse alla base di tutto stanno due visioni diverse di carcere?