È giusto un anno, oggi, che ci hai lasciati, anche se sei presente più che mai nel ricordo di quanti ti hanno voluto bene e di quanti hanno guardato a te come a un testimone credibile di quel Vangelo che è stata la ragione del tuo impegno di vita.
Tu, che amavi sostare in riva al mare contemplando l’infinito orizzonte, lasciandoti accarezzare dalla musica che rimandano le onde infrangendosi sulla battigia, ti sei levato in volo come un gabbiano in un giorno prodigo di neve. A me parve quasi una tua ultima carezza; un abbraccio tenero, soffice, la coltre bianca che avvolse la città al momento della tua dipartita. Come ogni persona, anche tu sei passato attraverso il crogiuolo di molte prove: hai amato, hai gioito, hai sofferto. Hai camminato a tentoni, a volte, come succede a tutti, ribadendo a te stesso, anche in quei momenti, che «credere non vuole dire tanto teorizzare verità, quanto piuttosto avere fiducia». E hai continuato a fidarti di Dio e degli uomini anche quando non ti era facile. «Per deformazione professionale io faccio fatica a credere» scrivevi. «Quante volte sono stato imbrogliato da chi mi raccontava frottole per strapparmi un aiuto o un favore!» Era da mettere nel conto il ricorso a qualche sotterfugio da parte di quanti ti avvicinavano chiedendoti un aiuto. Più difficile da accettare l’imbroglio da parte di chi consideriamo amico. «Quello che mi ha fatto più soffrire e mi ha causato non poche notti insonni è stato il tradimento, l’abbandono di chi si era professato amico, aveva ottenuto la mia piena fiducia. E poi se ne è andato, lasciando dietro di sé la scia dolorosa della calunnia, contro la quale è inutile reagire», scrivevi. Ma nonostante tutto hai continuato a ritenere che fosse necessario restare totalmente uomini, «evitando di chiuderci in uno spirito di egoismo individuale o di casta». Da prete quale eri e ti sentivi fino al midollo, ritenevi che nessuno più di un prete dovesse essere più aperto ai problemi del mondo, alle ansie, alle aspirazioni, alle preoccupazioni degli uomini. «Se noi» scrivevi parlando dei preti, «non orientiamo così il nostro potenziale affettivo, il nostro amore si rattrappirà nell’egoismo, o diventerà mania per il denaro o per i gatti. Noi, che volontariamente abbiamo accettato il celibato, non dobbiamo invecchiare mai, non dobbiamo inacidire, non dobbiamo lasciarci prendere dalla durezza e dalla tristezza del cuore che minaccia chi non ha un affetto coniugale. Noi non siamo gli apostoli dell’austerità, ma della gioia…» Non sempre eri una persona facile con cui rapportarsi, anche se in te la generosità non è mai stata una cosa di maniera e sapevi avere un’attenzione particolare per tutti. «L’uomo non è un naufrago, ma sempre un capolavoro dell’Altissimo, solo che è allo stato embrionale e non definitivo. È perciò ancora una creatura fragile, debole e insicura, e con molta fatica, superando varie insidie, può raggiungere il suo equilibrio psichico e morale» (Ortensio da Spinetoli, Io credo, dire la fede adulta). È stato così anche per te. Nei confronti dei soldi avevi il massimo distacco. Tra le tue mani sono passati milioni, ma non ti si è mai attaccato uno spicciolo. I bisogni degli altri venivano sempre prima dei tuoi. Eri molto attento nei riguardi degli altri. Penso che non ci sia persona, passata al Punto d’Incontro, operatori, volontari o ospiti, che non abbia ricevuto da te qualche cosa in regalo, come segno del tuo interessamento, come manifestazione del tuo affetto, della tua attenzione. Eri facile alla commozione; ed anche alle arrabbiature e alle scenate, talvolta, delle quali ti pentivi rapidamente. Sapevi chiedere scusa anche all’ultimo degli ospiti, quando pensavi di aver sbagliato. Confidandoti con me, qualche volta mi dicevi: «Mi è costato farlo, però dovevo». Anche a me hai chiesto scusa qualche volta, per qualche incomprensione, pur non dovendomene nessuna. Avevi delle attenzioni materne che mascheravi con quel tuo fare da burbero. Disdegnavi le smancerie o le sdolcinature, ma apprezzavi molto i segni di autentico affetto. Sapevi ascoltare. Quante ore hai passato ascoltando tante persone! E non hai smesso mai neanche da vecchio. Giravi per la città, sedevi su qualche panchina, per incontrare la gente, offrendo semplicemente (semplicemente?) ascolto… Non sopportavi perditempo e imbroglioni: con loro eri tranchant, e neanche persone insincere, melliflue o che ti approcciavano con un sia lodato Gesù Cristo… Ti piacevano le cose belle; i bei panorami, la musica, qualche bel film, il mare… «Chi non è mai stato al mare, non ha mai pregato Dio» (Lev Tolstoi. Il mare, dal primo dei quattro libri russi di lettura). E tu Dante pregavi molto. Qualche volta te ne usciva dicendomi: «Adesso basta però, perché ho pregà come ‘n asen tut ‘l dopo disnar».[ho pregato come un asino tutto il dopo pranzo] Della preghiera avevi questo concetto: «Io penso che la preghiera sia simile alla relazione di due persone che si vogliono bene ed esprimono la loro amicizia senza bisogno di molte parole, semplicemente stando insieme». È quanto facevi nel chiuso della tua stanza o recandoti in Duomo nella cappella del Crocifisso nella quale amavi sostare in silenzio. «Certamente il nome di Gesù è per me il nome più dolce che esista» scrivevi. «Quando sono afflitto da un grande dolore fisico o spirituale, quando sono tormentato dal dubbio, quando non capisco più niente e non so quale decisione prendere, anche nelle notti insonni, mi scopro a ripetere, quasi senza accorgermi: Gesù, Gesù!, e non riesco a dire altro». Ti piaceva l’allegria e la buona tavola; lo stare assieme. A volte te ne uscivi dicendo: «Vanno bene le discussioni, però qualche volta sarebbe meglio trovarsi a dialogare davanti a un buon bicchiere di vino e una pastasciutta, invece che perdersi in troppe chiacchere». «Forse uno dei primi passi per essere più uomini» scrivevi parlando del mangiare assieme, «è proprio questo: non badare tanto a che cosa, ma con chi si mangia. Quanto può essere triste un’aragosta divorata in solitudine, e quanto può essere gioiosa una patata lessa gustata in cordiale compagnia!» Ecco, da questi brevi cenni, credo appaia evidente che sei stato un uomo che ha amato con un cuore di carne. Ti sono, ti siamo riconoscenti. È stato un privilegio, per me, averti conosciuto e una gioia grande l’aver condiviso tanta parte del tuo cammino. Ora «l’infinitamente grande ha raggiunto te, infinitamente piccolo» come scrivevi, «avvolgendoti nel suo amore, trasformandoti, divinizzandoti, assorbendoti nella sua luce eterna, ma rispettando la tua individualità». Ora che non più velatamente sei immerso in questo Amore infinito e non puoi più «angustiarti in problemucci», che noi al contrario dobbiamo ancora affrontare ogni santo giorno, aiutaci a percorre il nostro cammino confidando nel fatto che «se ci lasciassimo conquistare dall’Amore non dovremmo più sognare il paradiso, sarebbe già il paradiso». Grazie, don Dante!