L’ hanno fatta grossa! Se ne sono accorti anche loro e adesso corrono ai ripari. Statene certi, troveranno il modo di regolarizzare badanti e colf, per evitare di trovarsi di fronte ad una situazione ingestibile e di rivolta del loro stesso elettorato. Sempre meglio di niente, dirà qualcuno. È certamente vero. È altrettanto vero che in fin dei conti sarebbe soltanto un atto dovuto. Però, come non vedere che anche un intervento in tal senso, si iscrive nella stessa logica che ha mosso gli stessi parlamentari ad emanare le mai sufficientemente condannate norme del pacchetto sicurezza?
Una logica cioè, che è ben riassunta nel detto trentino, tanto maschilista, quanto incisivo, usato in passato per indicare la donna ideale: che la tasa, che la piasa e che la staga ‘n casa. Anche per l’immigrato in generale, vale lo stesso concetto. Quanti sono mossi nei loro giudizi verso gli immigrati, dalle pulsioni più profonde e irrazionali e che sono ben rappresentati in parlamento, (in questo senso non c’è dubbio che la Lega ascolti la gente), muovono da un assunto molto semplice e primordiale: questa è casa mia, qui comando io e tu che vieni da fuori, ti comporti come ti dico. Hai cittadinanza finché mi sei utile e mi conviene. Anche costoro non possono fare a meno di assumere un dato di realtà: la necessità di manodopera. Nei cantieri, nell’agricoltura, in casa. Ne fanno esperienza quotidianamente e personalmente. È qualcosa che non possono confutare. E allora pongono dei vincoli, innalzano steccati, emanano norme liberticide, incuranti che tutto questo contrasti con il diritto o con quanto non accetterebbero mai per loro stessi. Per dirla con il filosofo Roberto Mancini, “siamo di fronte alla riduzione della società ad economia. Ridurre ogni cosa a economia, significa fabbricare un sistema in cui la sopravvivenza bruta si sostituisce alla vita. L’economia allora diviene non solo la scienza della sopravvivenza selettiva e mai universale, ma anche la profezia autorealizzantesi della società come giungla mortale”. In questo sta la ragione profonda per la quale quanti si considerano sinceri democratici, quanti hanno a cuore le sorti di ogni persona, dovrebbero trovare del tutto naturale rispondere con una rivolta morale, come auspica Pax Christi, di fronte alla approvazione della legge in questione. Il papa nella sua recente enciclica, afferma che “La carità eccede la giustizia, perché amare è donare, offrire del “mio” all’altro; ma non è mai senza giustizia, la quale induce a dare all’altro ciò che è “suo”, ciò che gli spetta in ragione del suo essere e del suo operare. Non posso donare all’altro del mio, senza avergli dato in primo luogo ciò che gli compete secondo giustizia. Chi ama con carità gli altri è anzitutto giusto verso di loro”. Noi cristiani, come possiamo tacere di fronte a norme così vessatorie e ingiuste? Come possiamo pensare di accontentarci di pregare nelle nostre chiese per i poveri, per i migranti, magari cantando o recitando il Padre nostro, pure tenendoci per mano, e poi avere la faccia tosta di fingere di non vedere che siamo responsabili del degrado e dell’imbarbarimento del vivere sociale, con atteggiamento acquiescente, verso quanto approvato in parlamento? Vale ancora il principio morale per cui non si può collaborare al male? Oppure le nostre paure bastano a giustificarci? Perché, confessiamolo pubblicamente, neppure noi siamo immuni da sentimenti di ostilità, da pregiudizi, da rancore e qualche volta forse anche di odio, verso i diversi, gli stranieri, gli zingari, i poveri. E allora, come non trasformare in riti vuoti le nostre Eucaristie, se non riconoscendo queste pulsioni che ci avvelenano la vita e l’esistenza, riconoscere la nostra povertà, incapacità di essere diversi? Farne ammenda e proporci di agire diversamente? Se la speranza è una virtù cristiana, quella che illumina la carità che non può essere che giusta, allora è questa che dovremmo imparare a praticare con umiltà e perseveranza. Accettando anche la fatica di stare dentro i conflitti nuovi che l’attualità ci presenta quotidianamente. Starci con l’atteggiamento di chi non opera nella direzione di voler vincere contro qualcuno, ma di far emergere l’umanità di tutti e di ciascuno, operando concretamente per la liberazione dal male, dall’infelicità, dalle ingiustizie. Questo sarà possibile soltanto se saremo capaci di renderci conto della sofferenza in cui versano tante persone, se impareremo a conoscerle di persona, ad ascoltarle e stabilire con loro relazioni quotidiane. Questo significa accettare di esporsi anche al proprio di cambiamento.