In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro sono lupi rapaci!
Dai loro frutti li riconoscerete. Si raccoglie forse uva dagli spini, o fichi dai rovi? Così ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi; un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produrre frutti buoni. Ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco. Dai loro frutti dunque li riconoscerete».
Viviamo in un’epoca nella quale è venuta meno la capacità, in tante persone, di saper riconoscere un albero dai suoi frutti, come poteva essere del tutto spontaneo e naturale in una società contadina nella quale, fin da bambini ci si abituava a saper riconoscere gli alberi dal tronco, dalle foglie e dalla conformazione. Anche i frutti, abituati a vederli sugli scaffali dei supermercati hanno perduto gran parte del loro aspetto più naturale perché sono presentati come fossero merce da esibire per colore, lucentezza, integrità che sovente sono aspetti del tutto superficiali, quando non contraffatti. Siamo dentro una società dell’apparire. Accade così anche per quanto riguarda la manifestazione della religiosità di tanti, più interessati alle forme che alla sostanza. Ne sono un esempi quanti, appellandosi alla tradizione, ma intesa come tradizionalismo, sono attratti più dalle luci, dagli incensi, dalle vesti liturgiche o dalla lingua latina ritenuta l’unica con la quale celebrare i sacramenti e l’Eucarestia, non avvedendosi che son esteriorità che poco o nulla hanno a che fare con il messaggio evangelico. Il vangelo è esigente, non è accomodante e viverlo richiede fare proprio lo stile di vita di quel Gesù di Nazareth che non era sacerdote, né principe, né cultore di fasti passati ma espressione del Dio incarnato che ama ogni persona e domanda di fare lo stesso. La bontà e la prelibatezza dell’essere cristiano sta nel somigliare a Gesù.