In troppi, a mio modesto parere, si sono affrettati a celebrare l’accordo per il ricollocamento dei migranti definito al vertice tenutosi alla Valletta il 23 settembre scorso, elogiandolo come un significativo cambio di passo rispetto alla gestione fin qui praticata.
Non c’è dubbio che almeno sul piano lessicale un mutamento ci sia stato, ma basta questo per dire che ci troviamo davvero dinanzi ad una svolta? Basta davvero gioire perché non abbiamo più un Ministro dell’Interno (cosa di non poco conto, convengo) che quotidianamente sbraiti di porti chiusi e di respingimenti per affermare che il nostro Paese e l’Europa hanno deciso un approccio più umano al drammatico problema dei rifugiati? Ne dubito. Ritengo che anche una felpata diplomazia possa nascondere tra le pieghe una non decisa volontà di impegno maggiore a questo riguardo. La bozza di accordo, perché di questo si tratta, per ora impegna, sulla carta, un numero esiguo di paesi europei e riguarda quanti approdano, dopo essere stati soccorsi lungo la rotta del Mediterraneo centrale, nei porti di Malta e in Italia. Sappiamo che sono una minoranza quelli che arrivano attraverso quella rota. Un vero cambio di passo lo avremmo avuto e lo avremmo se sarà cambiato il Regolamento di Dublino, se venisse istituito un Commissario europeo all’immigrazione con poteri veri di coordinamento, se in Italia, come aveva suggerito Prodi fosse stato previsto dal nuovo Governo un ministro all’immigrazione, insomma se Italia ed Europa si fossero mostrati meno timorosi e meno preoccupati di misurare con il bilancino le possibili ricadute negative in termini elettorali. Credo che non ci si possa continuare nascondere dietro un dito e non avere il coraggio di affermare verità scomode quali:
il fatto che nel mondo siamo arrivati alla cifra record di oltre 68 milioni di persone costrette a fuggire, delle quali oltre 25 milioni hanno attraversato confini internazionali diventando rifugiati;
che, per dirla con Antonio Guterres, segretario ONU, a fronte di un numero record di rifugiati e sfollati che sono in movimento, ciò che appare in fuga è la solidarietà e che non solo si chiudono i confini, ma anche i cuori, così che è distrutto il diritto di chiedere asilo
Una ragazzina di sedici anni, Greta Thunberg, con una determinazione encomiabile è riuscita a farsi paladina dell’urgenza improrogabile di un cambiamento profondo del nostro stile di vita e di sviluppo, e non ha esitato a tacciare di pavidità governanti e potenti del mondo, definendoli immaturi perché non hanno il coraggio di dire come stanno le cose.
Oltre 30 mila annegati nel Mediterraneo, negli ultimi 15 anni, non sono riusciti a mobilitare così tante piazze e tanta gente quanto è riuscito a Greta in soli due anni, eppure è attestato che esiste una stretta correlazione, come denunciato da papa Francesco nella Laudato sì, tra cambiamenti climatici e migrazioni forzate, per non parlare delle guerre alle quali non siamo estranei, se non altro come fornitori di armi.
Ecco perché, se è pur giusto e doveroso manifestare apprezzamento anche per i timidi e incerti passi avviati con l’accordo di Malta, per quanti credono e lottano ogni giorno per un mondo più giusto e umano non è lecito smettere di mobilitarsi e lottare per chiedere al nuovo governo che sia reintrodotto il permesso di soggiorno per motivi umanitari; riaperto l’accesso per i richiedenti asilo del sistema di accoglienza diffusa gestito dai comuni; ribadito con forza che chi rischia la vita in mare deve essere soccorso; che si annullino gli accordi Italia –Libia e non si effettuino respingimenti in quel Paese; che siano abrogati i decreti sicurezza che sono un disonore per il nostro Paese; che si chieda un vero piano di aiuti per l’Africa iniziando dal non depredarla come fatto fino ad ora e che si aprano canali regolari di ingresso di migranti in Europa.
Tutto questo per smettere di rubare i sogni dei poveri e consentire anche a noi stessi di progredire in umanità, cosa che la chiusura in noi stessi non ci consentirebbe destinandoci, se non all’estinzione, di certo ad una vita impossibile, sia dal punto di vista economico che sociale.