È durata solo un istante, come lampo che guizza all’improvviso sotto un cielo plumbeo, l’illusione che avessimo finalmente ritrovato quel minimo di saggezza capace di proiettarci verso un futuro migliore; più giusto.
Passata la paura che per un tratto ci ha paralizzati, facendoci sentire parte di un unico destino, ecco tornare a farsi strada gli antichi, e mai realmente rimossi, egoismi personali, di gruppo e nazionali. S’erano solo provvisoriamente acquetati, o molto più probabilmente erano stati silenziati sui mezzi di comunicazione, mentre continuavano ad agire del tutto indisturbati ed ora si riversano su masse frastornate, impaurite e arrabbiate, suonando l’eterna immarcescibile solfa per accalappiare, con lusinghe, consensi emozionali. Servirebbero intelligenze sagge, provvedimenti politici coraggiosi, indirizzi di politica economica, fiscale e di giustizia sociale innovatori capaci di tracciare un cammino alternativo a quello compiuto fino ad ora, che è parte rilevante del problema nel quale abbiamo rischiato di naufragare. Ma non si vede niente all’orizzonte che assomigli a quanto sarebbe necessario fare perché la svolta, a chiacchiere auspicata, abbia una plausibile possibilità di attuazione. I vari soggetti in campo, sia a livello nazionale, che europeo, per restare nel nostro mondo, paiono, i più “coraggiosi”, giocare di rimessa e non si accorgono, così facendo, di fare il gioco di quanti il cambiamento lo avversano da sempre, aprendo autostrade ai vari sovranismi e fascismi che non attendono altro che si incendino le piazze per poter mestare nel torbido, la loro unica capacità, nella quale sono maestri. Tra i vari esempi emblematici di questa incapacità o riluttanza ad affrontare di petto i problemi spinosi aperti, due mi paiono esemplari: la pervicace ostinazione a spendere somme ingenti negli armamenti, sia in acquisti, sia nelle vendite (in genere a paesi tutt’altro che democratici) e la disumana condizione nella quale sono costrette a sopravvivere migliaia di persone alle porte dell’Europa; sbarrate e filo spinate di cui l’isola greca di Lesbo rappresenta l’emblema vergognoso della disumanità di un continente. A nulla valgono le commemorazioni di passate tragedie se non sappiamo farci carico delle attuali e “niente è più disumano del chiudere la porta quando qualcuno ti chiede aiuto e ti implora di poter entrare. Abbiamo perso la Bellezza di aprire le braccia verso chi ci corre incontro”. (Anonimo) Abbiamo il dovere di rimanere umani, ma lo possiamo fare soltanto impegnandoci perché a nessuna persona sia preclusa la possibilità di vivere in modo dignitoso, poter sognare i nostri stessi sogni, danzare la stessa gioia, e progettare il proprio futuro.