Quando la morte bussa alla porta del nostro cuore, viene a scompaginare la nostra vita quotidiana, specie se colpisce persone ancora giovani, nel fiore degli anni,
come è accaduto a me in questi giorni con la morte del mio amato nipote 35enne, Daniele, vinto dalla leucemia dopo oltre due anni e mezzo di contrasto alla malattia, è spontaneo e normale per tanti, rivolgere domande a un cielo di sopra alla ricerca di un perché da attribuire a un dio avvertito, nella migliore delle ipotesi come assente, se non sadico e indifferente alla nostra condizione umana. Da che esiste l’uomo ragionevole ci si è sempre chiesti il perché del dolore innocente. Nessuna risposta è in grado di offrire, per quanto magari nobile e plausibile, conforto, consolazione. C’è chi, non potendo, perché non ci crede o perché ha timore di rivolgere alla divinità interrogativi che gli appaiono possibili bestemmie, ripiega su una spiegazione che a ben guardare è solo un tentativo di sfuggire alla domanda, affermando che la vita è ingiusta. Io non credo che la vita sia giusta o ingiusta. La vita reale è quella che è. A volte piacevole, tante altre sgradevole, noiosa e perfino brutta. Siamo noi a poterle dare un senso e lo possiamo fare, eventualmente, assumendola per come è; cambiandola là dove ci è possibile e promuovendola in tutto ciò che è positivo, bello, desiderabile. Anche nel dolore, nella sofferenza è possibile continuare ad amare, ma condizione previa è che ci si alleni a farlo ogni giorno, non attendendo la prova difficile per farlo. Ne usciremmo sconfitti. Io non so dire se Daniele abbia o meno fatto questo; se si sia allenato in precedenza. A giudicare da come ha saputo affrontare la malattia mi viene da pensare di sì perché lo ha fatto in modo ammirevole, con speranza, fiducia e determinazione. Ho un’altra convinzione, che nella prova davvero dolorosa vissuta sia stato sostenuto dalla vicinanza, il più delle volte, a causa delle restrizioni sanitarie, non in presenza, dei famigliari, dei parenti e degli amici e dalla preghiera incessante e costante di tantissime persone. Sì, io credo davvero che la preghiera, espressa nei modi più diversi, da credenti o non credenti, sia una forza vitale potente. Ecco, è questo il cielo di sotto che a mio avviso ha sostenuto e accompagnato Daniele e tutti noi fino a farci sentire parte di una famiglia dall’apertura universale. Se un dio esiste, per me è il Padre svelatoci da Gesù di Nazareth. In lui, come afferma l’apostolo Paolo, viviamo ci muoviamo, esistiamo. Non ho neppure io una risposta al perché della sofferenza e del dolore. Ho trovato un senso nell’esperienza di vicinanza, affetto, solidarietà di tante e tanti e nelle cure premurose prestate a Daniele dal personale medico e infermieristico durante i suoi ricoveri ospedalieri. La fede mi conforta nella certezza che la sua morte non è la fine di tutto, ma un inizio, che mi è e ci è accanto e che ci rivedremo.