“Non si può spegnere il fuoco col fuoco, asciugare l’acqua coll’acqua, combattere il male col male”, scriveva Tolstoj in una lettera all’amico Engelgardt. Ci sono sempre stati e ci sono ancora al presente, coloro che ritengono possibile il contrario. Tra questi anche coloro che hanno sparato, ferendolo alle gambe, nei giorni scorsi, Roberto Adinolfi. Siamo di fronte a una nuova insorgenza del fenomeno, purtroppo già conosciuto in passato nel nostro Paese, del terrorismo? Difficile dirsi. Certamente la disgregazione sociale del momento presente rappresenta un terreno fertile per una sua possibile rinascita.
Non si può escludere a priori che si possa precipitare in una spirale di violenza diffusa. Allora serve reagire recuperando rapidamente il tempo perduto perché non ci accada nuovamente di dover tristemente conteggiare vittime della violenza assassina da una parte, e una generazione di giovani intossicata e perduta da un’ideologia di violenza dall’altra. Per contrastare quanti sono tentati dalla scorciatoia della violenza, non basta però la repressione. Sarebbe illusorio soltanto ipotizzarlo. Urge un reale profondo cambiamento a ogni livello, a iniziare da quello culturale e politico. Servono soluzioni ai drammatici problemi che attanagliano migliaia di persone, che inducano alla disperazione, che stravolgono la vita di tanti. Serve recuperare un’idea condivisa di democrazia e servono strumenti in grado di renderla attuabile davvero a ogni livello. Serve poter partecipare, poter decidere, poter contare. Serve che ciascuna persona possa realmente vivere con dignità, avendo riconosciuto i propri diritti. E poi serve che ognuno scelga da quale parte stare, perché è sempre possibile, anche in una situazione meno drammatica di quella in cui ci troviamo, che esistano persone che pensino, come hanno scritto nel loro comunicato di rivendicazione, gli autori dell’attentato in questione: «Pur non amando la retorica violentista con una certa gradevolezza abbiamo armato le nostre mani, con piacere abbiamo riempito il caricatore… Impugnando una stupida pistola abbiamo solo fatto un passo in più per uscire dall’alienazione del “non è ancora il momento». Gli strumenti di lotta per produrre i cambiamenti che vede necessari, ognuno gli sceglie in base ai propri convincimenti. Purtroppo esistono anche in democrazia, perfino in quella più compiuta, persone e gruppi legati a una visione violenta del cambiamento, inteso come catarsi che deve realizzarsi per forza nel sangue. È una visione miope e delirante, perché, la storia ce lo ha insegnato, dalla violenza non nasce nessun uomo nuovo. Forse strutture di potere diverse; forse… ma nessuna creatura nuova. Il cambiamento delle persone passa attraverso una maturazione interiore; non si consegue imponendolo dall’alto, ed è un cammino arduo e mai terminato al quale possono contribuire, magari involontariamente, perfino quanti sono avvertiti come nemici. Di certo, chi opera attraverso strumenti non violenti, pagando di persone, ha a cuore anche il cambiamento dell’avversario, al contrario di chi usa strumenti violenti, per i quali l’avversario è sempre e solo un nemico, possibilmente da eliminare. Una società democratica perché si possa dire davvero tale, deve saper contrastare la violenza di chi la rifiuta, sapendo graduare la repressione necessaria nei confronti di chi attenta alla vita dei suoi membri, senza mai venire meno al dovere di salvaguardare i diritti inalienabili dei suoi nemici. Questa è la sua forza. E perché la sua forza sia veramente indiscussa, ha bisogno del sostegno convinto di quanti la compongono. Anche di quanti avversano legittimamente scelte non condivise, criticabili, sbagliate, fatte da chi ha responsabilità di governo. Essere da parte della vita, quella di tutti, è un fatto di civiltà ed è l’unica cosa che dovrebbe starci davvero a cuore in modo condiviso. Su tante altre cose possiamo giustamente dividerci, ma non su questa, pena precipitare nel caos, nel nichilismo.