Chi non ha mia incontrato o non conosce un disoccupato, un cassintegrato, un precario, uno in mobilità; una persona di fatto esclusa dalla vita sociale e che non riesce a vedere alternative credibile dinanzi a sé? La prima constatazione amara da farsi al riguardo, è che sono tutte persone che non hanno rappresentanza politica e sindacale.
Questo a prescindere dal fatto che se ne parli e sia argomento di cui in molti dibattono, senza tuttavia che si arrivi a soluzioni credibili. Di fatto non contano, se non, probabilmente, per le statistiche. Anche quelle però non raccontano tutta la tragedia che si cela dietro l’asetticità dei numeri. Così che possiamo sapere (fonte Italia ora. org) che oggi in Italia, in questo preciso momento, i lavoratori precari sarebbero 3.309.309 e i disoccupati 2.805.505. Dietro questi numeri ci sono volti, storie, dolori, attese, speranze. C’è in tanti rassegnazione, smarrimento, sfiducia, disperazione. Ma tutto questo non appare, se non quando qualche tragedia personale balza all’onore delle cronache, aprendo qualche squarcio nel muro di nebbia e indifferenza che troppe volte l’avvolge. La mancanza di lavoro non è una fatalità, così come non lo è la povertà. Entrambi sono fenomeni umani che derivano da precise scelte economiche e sociali. Sono manifestazioni imputabili, come ci ricorda papa Francesco, nell’esortazione Evangelii gaudium, «da un’economia dell’esclusione e della inequità. Un’economia che uccide», perché basata sulla «legge del più forte dove il potente mangia il più debole». Viviamo in una «cultura dello “scarto” che, addirittura, viene promossa […] Una delle cause di questa situazione si trova nella relazione che abbiamo stabilito con il denaro, poiché accettiamo pacificamente il suo predominio su di noi e sulle nostre società […] all’origine vi è una profonda crisi antropologica: la negazione del primato dell’essere umano! Abbiamo creato nuovi idoli. L’adorazione dell’antico vitello d’oro ha trovato una nuova e spietata versione nel feticismo del denaro e nella dittatura di una economia senza volto e senza uno scopo veramente umano. […] Tale squilibrio procede da ideologie che difendono l’autonomia assoluta dei mercati e la speculazione finanziaria». Di fronte alla crisi che stiamo vivendo, sarebbe oltremodo facile abbandonarsi allo scoraggiamento. Nei vangeli, quando si narra con linguaggio apocalittico della fine dei tempi, si parla di sconvolgimento nei cieli, di caduta degli astri. Non dobbiamo pensarli in un’ottica da fine del mondo; quanto di fine di un certo mondo, ed è anche quanto sta accadendo oggi. Gesù però ci invita ad alzare lo sguardo assicurandoci che la salvezza è vicina. Cioè che l’umanizzazione, attraverso i momenti difficili di crisi, come quelli attuali, progredisce. Come uscirne? È necessario che tutti noi collaboriamo a un cambiamento di paradigma. Mi viene alla mente l’episodio narrato nel libro di Geremia quando al profeta viene chiesto, in un momento altamente drammatico – Nabucodonosor sta per conquistare la città – di acquistare un campo e di farlo alla presenza di testimoni. Una cosa apparentemente priva di senso. Tutto sta per essere distrutto e proprio allora, su suggerimento di Dio stesso, il profeta è invitato a investire nel futuro. Perché? La spiegazione la dà Dio stesso: «Voi affermate che la vostra terra è devastata ed è rimasta senza uomini e senza animali. Ebbene, in questa terra, nelle città di Giuda, nelle strade di Gerusalemme che ora sono deserte, senza anima viva, senza animali, si udranno di nuovo rumori di festa e grida di gioia, i canti dello sposo e della sposa». Cosa ci è richiesto in questo nostro tempo? Una conversione profonda; un cambio di mentalità. Acquisire la consapevolezza che siamo parte di un unico grande corpo che è quello dell’umanità. Comprendere che siamo in rapporto tra noi come dei vasi comunicanti: se una parte dell’umanità vive nella sovrabbondanza, inevitabilmente l’altra parte vivrà nel bisogno. La medicina che può risanare questa situazione di inequità, per usare le parole di papa Francesco, non può consistere che in un travaso di beni da chi ha di più a chi ha meno. Dobbiamo passare, ad ogni livello, dalla mentalità dell’elemosina, cosa che suggerisce una forma di paternalismo che mantiene in una posizione di subalternità quanti ricevono e che esprime e rafforza il potere in chi dona, a quella di condivisione. Condividere quello che siamo e quello che abbiamo. È questo che fa la differenza ed è il messaggio rivoluzionario del vangelo. L’unica modalità di vivere che può creare l’abbondanza per tutti. Questo significa andare contro corrente, ma non è quanto siamo chiamati a vivere e fare, noi che ci diciamo credenti? E anche per quanti non si riconoscessero in nessun credo religioso, ma hanno a cuore le sorti dell’umanità; il bene, la giustizia tra le persone, non è forse questa la strada da intraprendere perché vivere con dignità sia possibile a tutti?