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Ultima modifica Martedì 22 Novembre 2016 10:29
16 ott 2016
UOMO DI PACE E CARITÀ
Scritto da Piergiorgio |
Letto 8713 volte | Pubblicato in Il mio blog
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L’ho appreso poco fa: è morto p. Fabrizio Forti, una persona che mi è stata e mi è molto cara. Con lui ho lavorato per diversi anni al Punto d’Incontro, negli anni Ottanta. Difficile riassumere in poche righe ciò che è stato p. Fabrizio.

La notizia della sua morte, benché inaspettata, non mi rattrista perché sono convinto che è solo andato avanti, oltrepassando la soglia del tempo, ma che sia più vivo che mai presso il Padre. Desidero qui ricordarlo riproponendo una breve intervista che mi rilasciò nel maggio giugno del 1996 per il giornalino del Punto d’Incontro.

Ho incontrato P. Fabrizio, per lunghi anni collaboratore al Punto d'Incontro, nella quiete inconsueta per l'ora, della casa dei frati di Piazzo di Segonzano. È stato un incontro tra amici. Difficile riassumere il frutto di una chiacchierata inframezzata dalla cena fatta assieme, da battute di spirito, da lavori domestici da concludere.

Quando e perché arrivi al Punto d'Incontro?

Ma tel sai ben anca ti; smorza quell'argagn - attacca con occhi furbi e sorriso di ammiccante complicità mentre piega con cura una camicia tolta dallo stenditoio. Quando?.. .ottantuno… maggio. Venivo dal Primiero dove insegnavo. Mi sono licenziato dalla scuola con l'idea di andare a mettermi tra la gente. Povera dentro o fuori non mi interessava molto. Sono andato da Dante dicendogli: sono qui; se hai bisogno di una mano sono disponibile. Ho iniziato così. Quanto al motivo credo vada ricercato in quella che era la mia storia di frate, di insegnante, di lavoro con gli handicappati.

Cosa ti convinceva della realtà del Punto d'Incontro?

Mi convinceva il tipo di lavoro tra la gente, sulla strada. Ricordo il servizio di accoglienza per la mensa, il lavoro in Laboratorio come occasione di guadagnare qualche soldo per chi ne aveva bisogno ed occasione di incontro per altre persone meno bisognose materialmente ma desiderose di contatti umani significativi. Si rischiava in maniera continua, ma mi piaceva.

Ognuno di noi si porta dentro un sogno rispetto all'impegno che si assume occupandosi di determinati problemi. Quale era il tuo, lavorando al Punto, ed in che misura ritieni si sia realizzato?

È il sogno che mi porto dentro da quando sono diventato frate e che non è legato ad un Punto d'incontro o ad un altro. Da quando sono andato via dal Punto sono in Valle aperta (centro di accoglienza per persone con sofferenza mentale promosso da p. Fabrizio), ma non ho sposato Valle aperta perché noi frati non siamo degli stanziali ma degli itineranti. Cosa per me molto bella anche se di difficile attuazione. Al Punto sarei stato molto gratificato se rimanevo perché mi piaceva e il lavoro di restauro in falegnameria e il contatto con le persone bisognose di essere amate. Noi frati non possiamo fermarci su quel appezzamento di terra quando altri possono curarlo al posto nostro.

Come intendi il tuo impegno tra quanti vivono ai margini della società?

Io non vorrei impegnarmi... vorrei vivere nella realtà nella quale sono chiamato a stare. In questa realtà c'è gente che fa margini e gente che butta fuori dai margini e quindi le relative persone emarginate. Viviamo in un mondo che crea continuamente situazioni di "lacrima". Vivere in questo mondo che semina volontariamente e non, a volte in maniera furbesca, situazioni di lacrime ed accorgersene, credo sia già uno starci dentro in modo costruttivo. Quello che si fa sono tutti tentativi di amore discutibilissimi da parte di coloro che vengono dopo di noi. A me non interessa più un settore o l'altro del disagio, quanto vivere dentro questo mondo che ha questi fremiti e provare gli stessi fremiti. Questo credo sia partecipare alla vita con amore.

Tra le sofferenze e le povertà attuali, vedi un'urgenza particolare verso la quale prestare attenzione?

Quindici giorni fa sono stato in Angola rimanendovi dieci giorni e credimi non vedevo l'ora di tornare nella nostra "Africa" perché mi sembrava più Africa. Mi spiego: laggiù c'è un'Africa visibilmente turlupinata, presa in giro. Qui c'è un'Africa uccisa in modo ovattato. Viviamo in una società che non riconosce sé stessa, quindi impoverita nel profondo, ripiena di progresso e di benessere, continuamente sollecitata verso altri traguardi che porta a situazioni di disagio e di malattia che in parte conosciamo e in parte ci minacciano rispetto al futuro. L'Africa intesa come territorio ha necessità di giustizia; da noi c'è bisogno di libertà. L'Africa ha bisogno di essere riconosciuta come pari dagli altri stati del mondo, da noi c'è bisogno di umiltà e contemplazione per ritrovare un equilibrio interiore sempre più minacciato Abbiamo corso troppo calpestando la testa di altri.

Pensi che sia aumentata, nei cittadini, la sensibilità verso coloro che fanno più fatica a vivere oppure che vadano aumentando le chiusure, l'indifferenza..

Me ven ‘n mente la storia de quei del goss… parliamo di emarginazione come di qualche cosa che è lontano o sta fuori di noi. Dobbiamo capovolgere il discorso. Siamo una società che si porta dentro un profondo disagio dato dal non saper pensare molto, da cui deriva la necessità che ci sia l'altro: il piccolo, il povero, l'anziano, l'ammalato, il drogato. Da queste contrapposizioni ricaviamo solidità per noi stessi. Il mio invito è a porsi sul marciapiede dove camminano tutti e dove ciascuno ha il suo livello che è quello delle spalle. L'altezza della persona la si misura dal suo saper stare con gli altri, dal suo relazionarsi con gli altri. Purtroppo ci stiamo abituando ad essere giudici degli altri...

...è un dato di fatto che la maggioranza delle persone tende a frequentarsi per fasce omogenee. Questa e una modalità di rapporto che tende ad escludere, a creare barriere…

Ciascuno di noi non accetta le sconfitte, ha bisogno di imputarle a qualcuno. Il sistema odierno, basato sull'esteriorità, favorisce ed accentua la contrapposizione tra le persone. Il malato mentale, l'ubriacone indipendentemente da quello che fanno, disturbano... Dall'altra parte vivo situazioni che definirei di speranza. Vedo persone, specie tra i giovani, decise ad alzare la testa e non limitarsi a guardare ciò che è stato ma che sanno mettersi in gioco e contrastare un certo modo di pensare e di agire volto a conservare per sé stessi non solo beni materiali ma anche esperienze, vissuti, modi di pensare.

Sei stato presente in modo attivo nelle zone di guerra della ex Jugoslavia. Qual è il messaggio, l'insegnamento che ricavi da quella tua esperienza?

La mia esperienza mi porta a dire che bisogna "ballarci" dentro. Non ho conseguito particolari successi ma abbiamo avuto dei segni che ci portano a dire che se il popolo fosse unito, e ponesse fede a quei valori nei quali crede e sapesse rischiare per diventate una interposizione non violenta all'interno di una situazione di conflitto di qualsiasi natura, si muoverebbe nella direzione che fu di Ghandi e di S Francesco. Userebbe cioè della sua capacita di scegliere per dire con verità e non violenza le ragioni sulle quali impegnarsi. Piccoli fatti come le marce verso Sarajevo, manifestazioni a Ginevra sotto le sedi Onu, incontri con il Patriarcato ortodosso, sono segni che vengono letti attentamente anche da coloro che si combattono e non possono essere ascoltati. Quali frutti? Non so. Dovremmo maturare una maggior passione per l'uomo preso in giro con parole di pace da tutti i balconi dei potere e poi maltrattato ed ingannato quando manifesta esigenze di giustizia e rispetto.

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