Sarebbe bello un mondo da mulino bianco, o forse no. Rimane il fatto che la vita, quella vera, concreta è molto diversa da quella immaginata o anche solo fantasticata da molti di noi,
compresi quanti magari sinceramente sono disponibili a mettersi in gioco nell’aiuto verso quanti vivono situazioni di sofferenza e di emarginazione. Non è sempre facile né tantomeno gratificante, talvolta, occuparsi di persone che vivono ai margini, travolte da vissuti che appaiono umilianti. Ma è proprio nella e dalla capacità di accostarci a loro con umiltà e tenerezza che si misura lo spirito che ci muove nei loro confronti. Il pregiudizio alberga anche nel cuore di chi è pure mosso dalle migliori intenzioni nei loro confronti, e anche la pretesa di possedere la chiave di volta capace di riportare queste persone, per così dire, sulla retta via. La capacità di accostarsi alla sofferenza di chi vive situazioni di grave emarginazione non la si improvvisa, Né la si acquisisce una volta per sempre. È piuttosto un cammino faticoso, una ricerca continua e un imparare, non già da teorie apprese librescamente, quanto nella relazione quotidiana con quelle stesse persone. Un dato è certo: la cosa di cui hanno maggior bisogno è l’essere riconosciute come persone e per vedere persone in volti sfigurati, in corpi maleodoranti, in vite segnate da abbrutimenti è necessaria una disponibilità che non è quasi mai istintiva (l’istinto suggerirebbe altre reazioni), piuttosto una scelta da assumere nella concretezza di ogni situazione si presenti. San Vincenzo de’ Paoli, uno che se ne intendeva di poveri, affermava che noi dobbiamo sempre farci perdonare ciò che doniamo (loro). E di questo non siamo proprio capaci. Vorremmo che ogni nostra buona azione avesse il suo immediato corrispettivo; producesse un cambiamento in chi è da noi beneficato. La vulnerabilità dei poveri è costituita anche ( e non è davvero poco) dall’essere costretti a mettere in piazza anche la loro intimità, ogni dettaglio della loro vita. Noi, così detti normali, abbiamo organizzato il nostro vivere assieme attraverso tante modalità diverse, in grado di rispondere a quasi ogni nostra esigenza, secondo procedure e forme tanti quanti sono i nostri bisogni. Non è così per i poveri, in specie per quanti vivono le situazioni più estreme. A tutti, indistintamente, quando va bene, sono offerti i servizi essenziali: mangiare, lavarsi, vestirsi e dormire, con soglie d’accesso in genere non sempre tarate sulle concrete situazioni. Ecco che allora non sono pochi quelli che anche a questi servizi non sono in gradi di accedere e “scelgono” di vivere in strada. La strada uccide, non dimentichiamolo e noi che riposiamo al sicuro nelle nostre case non saremo mai in grado di comprendere cosa significhi realmente vivere in strada. Basterebbe questa semplice e apparentemente banale considerazione per renderci umili nell’accostarci a coloro che vivono tali esperienze. Ma e il disturbo che recano a noi intenti alle nostre quotidiane attività dove lo mettiamo? Domanda legittima. Rispondo che facciamo ancora troppo poco, a volte nulla, per educarci alla convivenza anche con chi “disturba” e non facciamo ancora abbastanza per individuare luoghi e spazi nei quali i poveri possano sentirsi protetti, magari cercando anche la loro collaborazione. Siamo tanto bravi, si fa per dire, a progettare servizi e interventi a loro favore, insufficienti a coinvolgerli sentendo anche il loro parere. Se a motivarci nel nostro operare è il contrasto e la lotta alla povertà e non ai poveri, soluzioni, magari parziali e insufficienti, sempre discutibili, le possiamo trovare. Al contrario, se dietro le belle parole si nascondesse un sentimento di rifiuto e di disprezzo nei loro confronti, allora ogni intervento sarà inevitabilmente segnato dal desiderio di toglierli dalla nostra vista, spingendoli sempre più fuori: fuori dai nostri sguardi, dal consesso civile, dalla comunità di appartenenza, fuori dal vivere da esseri umani.