C’è da supporre che qualunque persona dotata di un minimo di ragione sia per la pace piuttosto che per la guerra, se non altro perché a tutti è noto quanto la guerra sia portatrice di dolore e sofferenza.
Eppure a ben guardare non pare proprio che sia così. Lo dico a prescindere da chi, e sappiamo bene che esistono anche costoro, del combattere ne hanno fatto una professione. Neppure mi riferisco a chi dalla produzione, vendita e commercio delle armi ne fa il proprio business. E neanche mi riferisco a governanti e capi di stato che decidono in base a convenienze politiche, geostrategiche o mossi dal dovere di onorare alleanze e accordi sottoscritti di cui i loro popoli, tante volte, non sono neanche a conoscenza. A me pare che non siano in piccolo numero le persone che pur desiderando la pace ritengono che in determinate circostanze, se infranta o compromessa, possa o addirittura debba essere perseguita anche attraverso l’uso delle armi. Non è forse quanto sta accadendo nei dibattiti su e attorno alla guerra in corso in Ucraina? La tesi, bisogno riconoscerlo, è piuttosto seducente perché chi mai potrebbe alzarsi a condannare chi viene aggredito da qualcuno se questi reagisce difendendosi? Il problema è che di un principio in sé giusto, se riferito a una disputa tra persone, se ne ricava sic et simpliciter, una norma valevole anche per conflitti tra stati e paesi. Ciò che non torna in questo tipo di ragionamento, (poteva forse valere in passato?) è che al giorno d’oggi non c’è mai proporzione tra offesa e capacità di reazione difensiva. Le guerre moderne, generalmente combattute tra eserciti di professione e/o milizie al soldo di qualcuno sono condotte con l’intento di produrre il maggior danno possibile all’avversario colpendolo nella popolazione civile, nelle infrastrutture, nel territorio e naturalmente nel numero dei caduti. Se poteva essere vero in passato la locuzione latina attribuita a Publio Cornelio Tacito Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant (dove fanno il deserto, lo chiamano pace), oggi con gli strumenti di morte a disposizione è pura, semplice e tragica realtà di ogni guerra. Qualcuno potrebbe obiettare domandando: ma allora che si dovrebbe fare? soggiacere senza fiatare a qualsiasi sopruso, violenza, dominio imposto con la forza? Certamente no! Ciò che serve è un cambio di mentalità da parte di tutti noi e disponibilità ad imparare non più “l’arte” della guerra; questa va disimparata, ma l’arte della nonviolenza e della soluzione pacifica, non violenta dei conflitti che sempre ci saranno tra persone e popoli. È un cambio di paradigma che si rende necessario e non per sentirci più buoni, ma perché diversamente l’esito sarà la distruzione dell’umanità. Fino a che non impareremo a fare la pace, costruendola ogni giorno, si continueranno a combattere guerre come quella in corso in Ucraina e in altre parti del mondo, con noi a fare da spettatori dispiaciuti e resi impotenti da quanti, mossi da interessi diversi e convergenti, ha il potere di renderci tali.